La sfida dell’oblò

In questi giorni di gran calore, sono tappato in casa e per occupare il tempo mi sono deciso a mettere un po’ d’ordine nei miei racconti e mi è affiorato nella mente questo ricordo di una persona a cui ho voluto bene e che per molti anni abbiamo condiviso la cabina e le esperienze in mare.L’episodio che vi racconto si intitola:

La sfida dell’oblò

Questa è una storia a cui non ho partecipato direttamente ma che ho sentito raccontare tante volte da farmi la convinzione di esserci stato. Non nominerò il protagonista ed esorterei gli eventuali testimoni a tacerne il nome. Era un ricordo che non amava ricordare. Rispettiamo la sua volontà.

Queste sfide nascono, quando si è giovani e talvolta per ingannare il tempo. Quando si è in mare il tempo non passa mai e allora si cerca qualche distrazione. Erano in mezzo al mare, a bordo della Maria Paolina G. o forse dell’Aragonese. I protagonisti erano in coperta a ridere e a scherzare dopo la cena. Ridendo e scherzando qualcuno propose di fare una scommessa o meglio una sfida. Bisognava passare attraverso un oblò nel più breve tempo possibile.

I concorrenti  si introducevano nell’oblò prima le braccia e assieme alle spalle la testa e parte del corpo, più o meno sino alla cintola, poi con la spinta dei piedi doveva passare il resto del corpo che finiva nell’adiacente saletta. L’azione diventava agevole per gli smilzi, che puntando e spingendo con i piedi sulla murata attraversavano l’oblò molto agevolmente. La cosa fu un poco più complicata per quelli un po’ più rotondetti. La spinta con i piedi restava determinante. Venne la volta del nostro protagonista che non era affatto smilzo, anzi il suo giro vita era giusto quello della dimensioni dell’oblò. Pelo, pelo si direbbe.

Iniziò la manovra di attraversamento ma qualcosa andò storto, la spinta con i piedi non aveva sortito l’effetto sperato. Rimase con le gambe penzoloni. Metà corpo era dentro e l’altra metà era rimasta fuori.

I compagni cercarono in tutte le maniere di aiutarlo a spingere ma senza successo. Per un effetto fisico il bordo dell’oblò segava il corpo in due, la pressione dei bordi fece gonfiare le parti a contatto con l’oblò, rendendo ancora più critica la situazione. Più si agitava più ingrossava, rendendo il passaggio impossibile. Lo stato di tensione degli sfidanti aumentava. Stava facendo sera e il buio incombeva. Bisognava fare presto non si poteva lasciarlo in quelle condizioni. Loro malgrado dovettero informare il Comandante, che chiamò il Direttore di Macchina che propose di tagliare l’oblò con la fiamma ossidrica. Non era un’operazione facile ma non c’era tempo da perdere. La fiamma ossidrica avrebbe potuto ustionare il malcapitato. Decisero di proteggerlo con delle stecche di amianto. Quando fu tutto pronto l’oblò venne tagliato. Ci volle del tempo ma alla fine il nostro sventurato protagonista fu liberato senza danni e senza ustioni.

Lui, di questa disavventura non ne ha mai parlato, neanche a distanza di anni, ma era consapevole che se ne sarebbe parlato a lungo, però, se non ricordo male, nessuno gli fece la richiesta di raccontare l’accaduto.

Quanto accadde fu un monito per tutti noi: a bordo queste cose non si fanno e non se ne fecero più.