E vi pagano pure!

È questo il secondo libro di ricordi di Andrea Cavanna. Alle storie di viaggi per mare, si alternano aneddoti di lavoro, visite a luoghi lontani e sconosciuti ai più, vicende sensazionali, situazioni di forzata convivenza, qualche volta fastidiosa, ma anche sentimenti di grande amicizia e forte solidarietà di gruppo.
Già il titolo “E vi pagano pure!” dà l’idea, spesso sbagliata, che, chi per motivi di lavoro, sia costretto a viaggiare è ritenuto più fortunato, rispetto a chi deve svolgere la propria occupazione in un ufficio, in una fabbrica o in una altra attività stanziale. Ciò può essere vero solo in parte.
Vivere per lunghi periodi, come ha ben descritto Andrea, nel ristretto spazio di una imbarcazione, spesso piccola e scomoda, dove si muove tutto un microcosmo, una comunità umana lavorativa variegata,ricercatori e marinai, ciascuno con le proprie competenze, ma anche con i propri pregi e  i propri difetti non è cosa facile.
Se poi alla convivenza forzata si aggiungono gli inconvenienti del lavoro, inevitabilmente presenti, il malessere fisico dovuto alla turbolenza del mare e i rischi di vivere sopra una imbarcazione non sempre idonea alla navigazione oceanica, vale il detto che tutto quel che luccica non è necessariamente oro.
E Andrea, tra una escursione di piacere, una visita a località stupefacenti e una seduta conviviale, queste situazioni di imbarazzante malessere, di traversate in acqua perigliosa e di intoppi lavorativi li evidenzia bene nelle sue storie. Fa percepire il timore della navigazione non sempre sicura, vivere la preoccupazione degli imprevisti, addirittura provare il mal di mare, e soffrire per gli incidenti mortali sul lavoro.
Con una scrupolosa descrizione, correlata da suggestive fotografie, Cavanna mostra ai lettori i variopinti tramonti in mare, la stupefacente natura islandese, il fenomeno del sole a mezzanotte, gli immensi parchi canadesi, le magnificenze architettoniche della Turchia e tanti altri paesi che solo pochi hanno potuto conoscere.
Da buongustaio, Andrea non poteva omettere un riferimento alla esperienze culinarie; in molti dei suoi racconti sono descritte le difficoltà di condividere ed adattarsi ai sapori e ai profumi di piatti dai nomi più o meno esotici cucinati a bordo da cuochi di tutto il mondo o consumati in ristoranti del nord Europa, come la cucina olandese, giudicata non proprio bonariamente ‘na vera ciofeca.
Questo libro-diario – che per Andrea Cavanna è stato un esercizio di memoria, un recupero di ricordi di vita lavorativa, raccolti anche con il contributo di alcuni colleghi – può essere letto come una guida alla scoperta della terra e dei suoi infiniti panorami. I lettori sedentari potranno scoprire il piacere di girare il mondo e immaginare le sue bellezze comodamente seduti in poltrona, i lettori più avventurosi, invece, mossi dalla curiosità, potranno scegliere di andare a visitare, prima o poi, una delle straordinarie località raccontate.

Pino Marchini

Purtroppo il libro non può essere presentato come la volta scorsa in uno dei nostri pranzi Saclantici a causa della pandemia in atto, ma è disponibile, per chi fosse interessato all’acquisto, nei seguenti punti vendita, alla Spezia: “Libreria Ricci” in via Chiodo 103, “Edicola di Piazza del Mercato” (di fronte al bar Cavour), a Sarzana: “Libreria Canale” in piazza Garibaldi, 14 e “Libreria il Mulino dei Libri” in via Mazzini, 34.
Il prezzo del libro è di 13.00 € più eventuali spese di spedizione 2.00 € per chi lo volesse ricevere a casa. Pagamento con bonifico o con Paypal. Le cui istruzioni vi verranno inviate privatamente.

La Vestaglia di Lavinio

Il braccio alzato non è un saluto romano e la bocca aperta non significa che stesse gridando “Hurrà”. Il braccio alzato era appoggiato al rack della radio di bordo. Nella prima foto Lavinio ascolta attentamente la domanda mentre nella seconda forse lo manda a quel paese…

LA VESTAGLIA
di Lavinio Gualdesi.

Stavo per buttarla via. Era ormai logora, la mia vestaglia.
Poi mi sono ricordato di una notte piena di lampi al largo dell’Elba…..
È stata la crociera più Kolossal di tutti i tempi e il nome era spaventoso: Yellow Shark.
Nessuno era riuscito ad arginare le richieste sempre più vaste di quello che per il suo modo di pronunciare l’ italiano chiamavamo tutti scherzosamente La Pantera Rosa.
Mentre gli altri avevano una Nave: lui tre. Mentre gli altri avevano un assistente scientifico e un Ingegnere coordinatore: lui tre. Anzi quattro. Io ero uno di questi.
Dove gli altri avevano un laboratorio a terra: lui Formiche di Grosseto , Elba, Giglio e vari mezzi minori.
Gli altri avevano un Programma prove: lui tre. E non rivelava da quale stava leggendo che un’ ora prima e agli stretti interessati.
Ne consegue che essendo lui uno e noi molti, la maggior parte passava il tempo in attesa di recitare la sua parte.
A me era toccata la parte di quello che sta sull’Alliance insieme con Francesco Spina.
Dopo due giorni e due notti in attesa che toccasse a noi essere interpellati dal CAPO il tempo cominciava a farsi problematico e la Formica era squarciata da lampi.
Le comunicazioni radio erano sempre dal capo a tutti. Solo che nessuno sapeva chi sarebbe stato interrogato.
Dopo cena il sonno dopo due notti e due giorni passati davanti alla radio si faceva sentire.
A ma e Francesco calava la palpebra e ci tenevamo svegli con le solite battute.
Andrea Cavanna che, avendo da tenere a balia un infinito numero di software e tutti quelli che ci si incartavano dentro, era sempre presente in laboratorio, mi ricorda anche un’altra frase ricorrente nelle comunicazioni tra imbarcazioni e che sarebbe suonata strana ad una ipotetica spia in ascolto. La frase era: “Voi che parlare con le formiche ditegli che …..” .
A questo proposito sorprendiamo Vittorio Grandi venir interpellato per Radio dal CAPO. Era il suo turno e nel tentativo di rispondere subito e a tono esagerava al punto che ne imitava la pronuncia in modo che in laboratorio tutti ne ridevano.
L’ unico che non rideva era il CAPO che andando a cena voleva essere sicuro che le cose continuassero.
Il sonno a questo punto ci faceva sbandare. Francesco mi confessava che stava per andare a nanna.
Io volevo aspettare che ci informassero quelli sull’Isola con lui che fosse andato a dormire.
Alle due di notte ero ancora ad aspettare.
I miei informatori mi dicevano: “con quello che ha mangiato e bevuto non tarderà a crollare….”
Alle due e trenta, sopraffatto dal sonno, ho avvisato il personale di guardia in Laboratorio che andavo in cabina e di chiamarmi se fosse stato necessario.
Dopo solo mezz’ora, e quindi con il sonno più profondo, sento bussare alla porta e gridare”La Pantera Rosa ti cerca!!! Fai presto che sta gridando come un aquila dove sei!!!
Mi infilo la prima cosa che trovo al buio: la vestaglia (che normalmente usavo solo per entrare nel bagno che era sempre freddo) e corro in Laboratorio.
Il dialogo che ne seguì veniva annotato dal “notaio” del gruppo: l’ amico Legner.
Se avesse ancora gli appunti mi piacerebbe rileggere il colloquio tra un morto di sonno e un ubriaco petulante.
La Pantera Rosa continuava a chiedermi di mettere a mare subito nella notte uno strumento scelto accuratamente tra tutti quelli disponibili solo perché gli avevo detto dall’inizio che era sperimentale e quindi non calibrato né tanto meno affidabile.
Per di più mi chiedeva una misura a pochi centimetri dal fondo del mare.
A nulla è valso spiegargli che oltre tutto, dato lo stato del mare, i pochi centimetri diventavano un metro e mezzo ad ogni beccheggio della nave.
Un modo come un altro per schiodare lo strumento sul fondo.
Temendo ancor più il bonario rimprovero di Federico (“Aho macché avete fatto , m’ avete sventrato lo strumento!!!”) che l’ ordine perentorio di uno che l’ indomani non si sarebbe ricordato di avermelo ordinato…. decisi di ignorare l’ ordine.
Il fatto è stato come sempre apparentemente ignorato e dimenticato, ma lo sfottimento per essermi presentato in vestaglia in laboratorio è durato per giorni e le sere dopo mi è costato varie birre in saletta!!!
Adesso che ho fatto la foto ricordo la posso buttare tranquillo.
La foto in divisa da allievo di macchina l’ ho messa perché li invece, anche dopo notti di guardia, farmi trovare a dormire mi sarebbe costato il posto.

Ad integrazione  del racconto di Lavinio riporto qui di seguito il commento di Francesco Spina.

Cari amici,
mi ricordo bene quella sera. Era stata una giornata intensa ed eravamo finiti in prossimità dello scoglio d’ Africa. E’ questa -per chi non la conosce- una zona di mare con profondità di pochi metri situata a metà strada tra la Corsica e Montecristo, a Sud di Pianosa; tutto intorno circondata da un mare profondo fino a 200 metri.
A Montecristo stava lo scientist in charge.
Io ero a bordo e il mio compito era, oltre al lavoro che facevo di solito, il collegamento tra lui e il bordo con Lavinio e gli altri. A bordo tra l’altro c’era una giovane ricercatrice che si interessava alla poseidonia, particolarmente abbondante su quello scoglio sommerso investito da correnti che si possono immaginare. Per osservare il diverso comportamento della poseidonia dal giorno alla notte, e l’impatto che esso aveva sull’acustica era venuto in mente a qualcuno di fare quella misura di cui parla Lavinio (se ricordo bene riguardava l’ossigeno disciolto in acqua).
Solo che in quella crociera c’era qualcosa di inusuale: il contatto con lo Scientist in Charge si interrompeva a fine giornata, per riprendere qualche volta, come quella sera, nel cuore della notte. Questo tra parentesi era un mio problema, perché la sera Lothar (il comandante) mi chiedeva il programma di lavoro per il giorno dopo e io non sapevo cosa dirgli (Poi risolsi questo problema dandogli ogni sera un piano di mia invenzione salvo revisioni la mattina dopo se necessario).
Quella sera però ero andato a dormire e vi potete immaginare quale impressione mi fece veder comparire Lavinio nella sua elegante vestaglia. Superata la sorpresa (potete immaginare quello che uno avrebbe potuto pensare per quella visita notturna) concordai con lui che poteva fare o non fare la misura secondo il suo giudizio e tornai a dormire.

 

La sfida dell’oblò

In questi giorni di gran calore, sono tappato in casa e per occupare il tempo mi sono deciso a mettere un po’ d’ordine nei miei racconti e mi è affiorato nella mente questo ricordo di una persona a cui ho voluto bene e che per molti anni abbiamo condiviso la cabina e le esperienze in mare.L’episodio che vi racconto si intitola:

La sfida dell’oblò

Questa è una storia a cui non ho partecipato direttamente ma che ho sentito raccontare tante volte da farmi la convinzione di esserci stato. Non nominerò il protagonista ed esorterei gli eventuali testimoni a tacerne il nome. Era un ricordo che non amava ricordare. Rispettiamo la sua volontà.

Queste sfide nascono, quando si è giovani e talvolta per ingannare il tempo. Quando si è in mare il tempo non passa mai e allora si cerca qualche distrazione. Erano in mezzo al mare, a bordo della Maria Paolina G. o forse dell’Aragonese. I protagonisti erano in coperta a ridere e a scherzare dopo la cena. Ridendo e scherzando qualcuno propose di fare una scommessa o meglio una sfida. Bisognava passare attraverso un oblò nel più breve tempo possibile.

I concorrenti  si introducevano nell’oblò prima le braccia e assieme alle spalle la testa e parte del corpo, più o meno sino alla cintola, poi con la spinta dei piedi doveva passare il resto del corpo che finiva nell’adiacente saletta. L’azione diventava agevole per gli smilzi, che puntando e spingendo con i piedi sulla murata attraversavano l’oblò molto agevolmente. La cosa fu un poco più complicata per quelli un po’ più rotondetti. La spinta con i piedi restava determinante. Venne la volta del nostro protagonista che non era affatto smilzo, anzi il suo giro vita era giusto quello della dimensioni dell’oblò. Pelo, pelo si direbbe.

Iniziò la manovra di attraversamento ma qualcosa andò storto, la spinta con i piedi non aveva sortito l’effetto sperato. Rimase con le gambe penzoloni. Metà corpo era dentro e l’altra metà era rimasta fuori.

I compagni cercarono in tutte le maniere di aiutarlo a spingere ma senza successo. Per un effetto fisico il bordo dell’oblò segava il corpo in due, la pressione dei bordi fece gonfiare le parti a contatto con l’oblò, rendendo ancora più critica la situazione. Più si agitava più ingrossava, rendendo il passaggio impossibile. Lo stato di tensione degli sfidanti aumentava. Stava facendo sera e il buio incombeva. Bisognava fare presto non si poteva lasciarlo in quelle condizioni. Loro malgrado dovettero informare il Comandante, che chiamò il Direttore di Macchina che propose di tagliare l’oblò con la fiamma ossidrica. Non era un’operazione facile ma non c’era tempo da perdere. La fiamma ossidrica avrebbe potuto ustionare il malcapitato. Decisero di proteggerlo con delle stecche di amianto. Quando fu tutto pronto l’oblò venne tagliato. Ci volle del tempo ma alla fine il nostro sventurato protagonista fu liberato senza danni e senza ustioni.

Lui, di questa disavventura non ne ha mai parlato, neanche a distanza di anni, ma era consapevole che se ne sarebbe parlato a lungo, però, se non ricordo male, nessuno gli fece la richiesta di raccontare l’accaduto.

Quanto accadde fu un monito per tutti noi: a bordo queste cose non si fanno e non se ne fecero più.

Giuliano Tognarini

In questi giorni abbiamo ricevuto la notizia della scomparsa di Giuliano Tognarini un personaggio che ha fatto parte della storia del Centro.

Giuliano  con Alvaro Carrara ed Elvio Nacini costituivano il team dei cartografi prima dell’avvento dei sistemi GIS (Geographic Information System) con i quali tutti sono stati più o mano capaci di mettere dei dati geografici su una mappa.

Il loro era un lavoro nobile le cui basi si perdono nella notte dei tempi. Una scienza che si sviluppò ai tempi delle grandi scoperte geografiche. Era un lavoro prezioso. Qualunque esperimento scientifico non avrebbe avuto senso senza il loro contributo. A turno partecipavano a tutte le crociere scientifiche. Il lavoro era molto. A quei tempi le navi da ricerca l’Aragonese, la Maria Paolina G non stavano quasi mai in porto. Le crociere si susseguivano una dietro l’altra e le campagne scientifiche duravano anche diversi mesi. Con la loro abilità ricostruivano sulla carta l’andamento della crociera. Ogni misura era riportata sulle carta con estrema precisione. Le carte nautiche disegnate (a mano) da questi signori erano delle vere opere d’arte.

Tutti e tre venivano da istituzioni militari. Giuliano ed Elvio venivano dell’Istituto Idrografico della Marina Militare mentre Alvaro veniva dall’ IGM (Istituto Geografico Militare) quindi abituati ad un certo ambiente militare costituito da regole e formalità. Tanto è vero che per molti anni, pur lavorando gomito a gomito hanno continuato a darsi del lei. Soltanto una mattina, storica, Alvaro disse a Elvio: ” Oggi c’è una grande novità, abbiamo deciso che da oggi ci daremo del tu“.

Giuliano Tognarini con Enrico Muzi al tabolo di carteggio

Giuliano Tognarini con Enrico Muzi al tavolo di carteggio a bordo dell’Aragonese.

Giuliano con la moglie al pranzo del 2012 al ristorante Ala Bianca.

Giuliano con la moglie al pranzo del 2012 al ristorante Ala Bianca.

Che dire di Giuliano, un vero signore. Anche quando era giovane, per me, che l’ho conosciuto nel 1971, mi sembrava un signore di altri tempi. Splendido il suo sorriso che emanava tranquillità e serenità. Non ricordo di averlo visto arrabbiato o alterato.

Che bello se fossimo stati come lui.

Ciao Giuliano, sono sicuro che anche dove ti trovi adesso avrai sempre il sorriso sulle labbra.

La segretaria troppo intraprendente

Era il 1982 e per la prima volta la Maria Paolina G. avrebbe fatto scalo in Egitto e precisamente nel porto di Alessandria. La segretaria del gruppo avrebbe raggiunto la nave in quel porto. Era partita per conto suo qualche settimana prima per fare una vacanza e per preparare la nostra visita al Cairo.
Giungemmo finalmente ad Alessandria d’Egitto il giovedì, nel primo pomeriggio, ma non ci fecero attraccare in banchina, ci tennero un giorno in rada. Ci fecero attraccare il venerdì, che come è noto, nei paesi mussulmani è giorno festivo. Forse per farci pagare di più le operazioni portuali.
Appena attraccato una miriade di barche si fecero sottobordo. Con una scusa o con l’altra tutti tentavano di salire a bordo per offrire i loro servigi. I marinai di guardia ebbero il loro daffare a tenerli a bada.
Più di una volta venne la polizia a mandarli via con metodi abbastanza rudi. Un poliziotto saliva a bordo di ogni imbarcazione e a calci nel sedere faceva salire i barcaioli sulla motovedetta. Quando se ne andò la motovedetta era piena di barcaioli e tutte le barche, forse quattro o cinque, legate una all’altra venivano trascinate via.
Poco più tardi arrivò un’altra barca con un signore molto ben vestito, indossava un caftano color cremisi molto elegante e il classico zucchetto ricamato. Sembrava un  vero uomo d’affari arabo. Con fare scaltro, spacciandosi per  il rappresentante dell’agenzia marittima, riuscì a salire a bordo e a parlare con il comandante. Tra le altre cose propose al comandante e al capo crociera la visita al Cairo. Parlava fluentemente inglese. Promise che avremmo fatto il viaggio attraverso il deserto a bordo di vetture climatizzate e ci avrebbero portato a visitare le meraviglie del Cairo.
Tutto questo accadeva prima che la segretaria giungesse a bordo. Essa, nei giorni precedenti, aveva preso accordi con agenzie turistiche e concordato il tour, aveva concordato anche il prezzo. Rimase sbalordita quando venne a sapere che avevamo preso accordi con l’egiziano. Purtroppo non si poteva tornare indietro.
L’indomani mattina all’alba la prima sorpresa: i mezzi di trasporto non erano proprio come avevamo concordato, un pulmino ed una macchina e naturalmente l’aria condizionata era costituita dai finestrini aperti. La segretaria visto il primo intoppo non si lascò scappare l’opportunità di far rilevare che eravamo stati fregati. Purtroppo non si poteva fare altro che affrontare i 220 chilometri che ci separavano dal Cairo percorrendo il Deserto di Alessandria in circa tre ore.
Prima tappa del tour fu una moschea famosa in cui era sepolto lo Scià di Persia,  visita al museo Egizio e a seguire la spianata di Giza con la sfinge e le tre piramidi. Arrivammo a Giza verso mezzogiorno, il sole era altro e le piramidi illuminate dal sole erano abbaglianti. Provai un senso di disagio misto a delusione che presto sparì quando cambiò l’angolazione della luce e le piramidi apparvero nel loro splendore. Formammo dei gruppetti, il mio gruppo decise di fare un piccolo spuntino . Dopo il leggero pasto decidemmo di visitare il Tempio Basso, la Sfinge e la Piramide di Chefren nel suo interno, sino alla camera mortuaria.  Restammo affascinati dal luogo. Sembrava di vivere in una favola. Ci proposero di andare a visitare un bazar ma decidemmo di restare in quel luogo il più a lungo possibile. Ci restammo sino all’ora di cena. La cena avvenne in un locale spettacolare, ma il bello doveva ancora venire, avevamo prenotato per assistere allo spettacolo di Suoni e Luci. Uno spettacolo di musiche e colori accompagnati da un racconto molto suggestivo. Ci sentimmo trasportati tre millenni in dietro come consigliava la voce narrante. Speravamo che non finisse mai.

Dopo lo spettacolo ci aspettava il lungo viaggio di ritorno sempre attraverso il deserto. Eravamo stremati dalla fatica, ma appagati per quello che avevamo visto in una sola giornata. Con l’aria condizionata al massimo (finestrini completamente abbassati) affrontammo il viaggio di ritorno. Eravamo così stanche che ci addormentammo.
Arrivammo ad Alessandria che era notte inoltrata. Scesi dalle macchine non ci restava che pagare quanto dovuto. La segretaria che non aveva gradito quel tipo di servizio cominciò ad insistere con il capo crociera affinché non pagasse quanto pattuito. Doveva ritoccare il prezzo perché le macchine non avevano l’aria condizionata ed erano fatiscenti. La discussione montava di tono. Una donna teneva testa ad un uomo  cercando di imporre la sua volontà. Una cosa inaudita per un mussulmano.

Non ce ne accorgemmo subito, ma da un po’ eravamo circondati dalla polizia, armata. Una decina di poliziotti si erano disposti in circolo. Non volevamo finire di certo la gita in guardina o peggio in una prigione egiziana. Convincemmo la segretaria ad abbassare i tono. A conti fatti, a parte le macchine, il viaggio era stato soddisfacente ed invitammo il capo a pagare quanto dovuto. Pagato il dovuto la polizia si disciolse come era arrivata.

L’unica persona che rimase delusa fu la segretaria, che per carattere, non era riuscita ad averla vinta.

Le casse del sottomarino

Nell’ottobre del 1961 attraccò, in Arsenale, un sottomarino nucleare Americano. Avevano un problema a bordo, stavano aspettando dei pezzi di ricambio che dovevano arrivare a Milano.
Era logico che noi del Centro collaborassimo per risolvere il problema. Infatti a ridosso del fine settimana il Capo Hammond, responsabile dei trasporti, mi chiamò per dirmi che assieme al collega Beverini e con il furgone chiuso avremmo dovuto andare all’aeroporto di Malpensa per ritirare due casse destinate al sottomarino.
L’arrivo dell’aereo era previsto per la domenica successiva. Partimmo molto presto: a quei tempi l’autostrada non c’era. Dovevamo affrontare la nebbiosa Cisa. Arrivammo puntuali a Malpensa ed anche l’aereo arrivò puntuale. Dopo che furono scesi tutti i passeggeri potemmo avvicinarci all’aereo con il furgone ( naturalmente avevamo un permesso speciale). Quattro giovani che reggevano un cartello con su scritto “General Dinamix” ci vennero incontro mentre il secondo pilota apriva la stiva sotto la cabina di pilotaggio per sbarcare le due casse sigillate. Con un po’ di fatica e con l’aiuto di tutti riuscimmo ed issarle sul furgone.
Stavamo per ripartire quando si presentò un giovane tenente della Guardia di Finanza che voleva ispezionare le due casse. L’ingegnere Bill Barnes rispose con un secco no. Ne sorse una discussione assai vivace.
Le trattative non sortivano niente di buono, nel frattempo s’erano fatte le undici. Stava venendo tardi. Fu allora che mi venne in mente un espediente. Chiamai da parte il capo spedizione e gli suggerii di contattare il Console Americano a Milano. Dopo una breve conversazione telefonica partimmo alla volta del Consolato. Il Console ci sta aspettando in ufficio. Per non perdere tempo decisi di chiamare un taxi che ci condusse al consolato direttamente. Finalmente con un accordo in tasca ritornammo a Malpensa con l’autorizzazione a partire. L’accordo prevedeva che l’indomani mattina avremmo trasportato le due casse direttamente a bordo del sommergibile.
Il viaggio di ritorno fu un vero tormento. Sulla Cisa trovammo un nebbione fitto. La visibilità era ridotta a pochi metri. Procedemmo quasi a passo d’uomo. Arrivammo alle tre del mattino. Dovemmo svegliare i guardiani di Porta Ferrovia per mettere il furgone in un’area protetta. Il mattino dopo potemmo finalmente consegnare, sotto scorta, le due casse.
A distanza di un mese mi arrivò un giornalino stampato dalla Guardi di Finanza e qualche giorno dopo,dalla General Dinamica di S.Diego, un ferma cravatta che raffigurava un sommergibile, che conservo gelosamente ancora oggi. Per me è il ricordo di una grande avventura.

Omar Burroni

Secondo Giancarlo Vettori poteva essere il Nautilus USS 571

Sottomarino atomico USS 571 - Nautilus

 

I racconti di Piero Serani

Finalmente qualcuno ha preso il coraggio di imitarmi ed ha cominciato a scrivere i suoi Raccontini. Questo qualcuno si chiama Piero Serani, che come me ne ha di cose da raccontare…..

Questa é la sua motivazione:

A forza di leggere quelli che Andrea chiama “Raccontini” ho pensato che forse qualche raccontino dopo 41 anni di centro ce l’ho anch’io da narrare. Magari in certi casi non metterò i nomi delle persone coinvolte. A molti non piace essere posti al centro dell’attenzione e talvolta in situazioni un po’ ridicole. Queste cose sono come le barzellette: l’una ne fa venire in mente altre. Infatti questa rubrica la potremo intitolare:

Eravamo cinque amici al bar. Dove ognuno ad un certo punto esordisce: ”Ma ve lo ricordate di quella volta che….

I suoi racconti gli ho raggruppati in un sotto menu  della sezione Racconti che ho intitolato Eravamo cinque amici al bar, come ha proposto Piero.

Buona lettura

OLE HASTRUP

Nella chiesa Parrocchiale di Pugliola Alta, si sono celebrate ieri, sabato 3 agosto 2013, la Santa Messa e le esequie funebri del nostro amato ex ricercatore al Nato-Saclant.

Ole, capace capo dipartimento dell’S.P e Head Cruise in molte crociere nordiche, grande e cordiale amico di tutti noi tecnici.

E’ stato portato via all’età di 81 anni, da un male incurabile dopo un ricovero di qualche mese nell’ospedale genovese.

Un bel numero di persone era presente alla cerimonia,tra cui i più diretti collaboratori di un tempo. Significativa la presenza di Tuncay Akal, venuto espressamente e velocemente dalla Turchia per non mancare all’ultimo saluto a Ole; con lui, ha condiviso tanti anni di lavoro di ricerche marine nell’ambito della propagazione e rilevamenti acustici del suono.

Molti altri dei “nostri” erano presenti e non li cito per non dimenticare qualcuno. Toccanti sono state le buone parole del parroco celebrante, di un predicatore della chiesa collegata di San Venerio e della lettura della Preghiera del Marinaio da parte di un altro lettore. Ma estremamente toccante e commovente è stata la lettura del messaggio al papà, in danese e poi in italiano della biondissima figlia di cui riporto più meno le parole finali: “”Caro Papà, non essere triste lassù nell’azzurro dei cieli, avrai miriadi di lucenti stelle da guardare e quaggiù i tuoi cari saranno sempre con te””.

Presenti la gentile consorte Tiziana de Biasi, Il fratello danese estremamente somigliante, la sorella e come detto la bella figlia insieme a molti altri conoscenti, parenti ed amici.

Purtroppo, per noi ex Nato, ex colleghi, un altro pezzo di storia che se ne va.